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Ciao Brando
agosto 13, 2009

Certe volte non c’è modo di vedere il bicchiere mezzo pieno. Adesso per esempio, adesso che è mattina presto e che fa già caldo, adesso che ho appena trovato il cane più grande e ingombrante in ogni senso che avessi mai avuto, addormentato in giardino di quel sonno dal quale non ci si sveglia più… adesso cerco l’aspetto più positivo o meno negativo della cosa senza trovarne uno.

Ci aveva già rovinato le porte e le finestre ormai, non c’era modo di insegnargli l’educazione e ci eravamo rassegnate, avevamo imparato a gestire i suoi slanci d’affetto e lui aveva accettato un nome che probabilmente non era il suo fin dal principio… a cosa potrei pensare ora per poter dire: almeno adesso questo o quello andrà meglio? Proprio niente.

 

Non c’è modo di vedere il bicchiere mezzo pieno perché Brando riempiva ogni spazio e aveva sotto controllo ogni minima situazione che riguardasse la casa e le persone che la vivevano. Brando riempiva ogni bicchiere mezzo vuoto, ci saltava dentro annullando le mancanze, azzerando ogni difetto con tutta l’esuberanza di cui non sapeva – forse – di essere dotato.

 

Dava l’impressione di non sapere, Brando, quanto fosse grande, pesante, puzzolente, prepotente e simpatico.

Dava l’impressione di credersi piccolo e agile al pari degli altri amici cani con cui viveva e lasciarglielo credere per noi era come una carezza…

 

L’avevo chiamato Brando perché assegnargli un nome che non fosse proprio di persona sarebbe risultato artificioso su un colosso come lui. Tanto più considerate le sue espressioni, quello strano modo di mugulare che somigliava tanto, troppo, a quello di qualcuno che si sforzava di parlare… con qualche successo in alcuni casi.

 

Stamattina tutto sembrava uguale agli altri giorni: i gatti ansiosi di mangiare, un orto da innaffiare, l’aria già densa di quel caldo che di sicuro arriverà quando il sole sarà più alto, l’erba umida dalla notte appena trascorsa, una predominanza di verde e di azzurro come in ogni campagna che si rispetti. Nel quadro però c’era una macchia bianca e nera quasi indistinta, laggiù, vicino al cancello chiuso.

 

E’ lì, al di là di quel cancello che 5 anni fa vidi Brando fare capolino per la prima volta: era magro ma già fiero e sapeva come conquistare un cuore. Il mio se lo prese subito.

 

Da allora l’ho amato e odiato con un’intensità che sarebbe impossibile descrivere dettagliatamente ma che andava in equilibrio tra la sua esuberanza e la capacità innata di farsi perdonare tutto.

 

Il bicchiere è mezzo vuoto perché lui l’ha lasciato così. Vuoto come il suo divano, come l’angolo fresco in cui si sdraiava, quello vicino al cavalletto per dipingere, vuoto come l’aria che oggi è vuota della sua voce maestosa.

 

Se ne è andato così come era venuto, all’improvviso, in maniera circolare, investendoci come un ciclone e poi lasciandoci lì, sul quel cancello, a pensare a lui.

 

Così come quando arrivò, l’unica cosa che posso dirgli ora è: “ciao… non avere paura”

Ma che senso ha?
agosto 5, 2009

 

Io non so quando esattamente, forse tornando a piedi da scuola o forse ci sono nata con l’amore per il cammino, ma ho capito che mettere un piede davanti all’altro e arrivare così, veloce o piano da qualche parte, è una delle cose più belle che possano esistere.

 

Quando si cammina c’è tempo di prendere tempo.

 

Quando si cammina si ha la percezione chiara e netta che il mondo non è una massa immobile di terra ma che esiste un movimento perpetuo che  ci culla di sottecchi.

Dopo aver camminato per chilometri e chiudi gli occhi, lo senti il mondo che si muove ancora sotto i piedi.

 

Camminando, camminando e camminando si ritrova quella sintonia un po’ sopita nei millenni tra corpo umano e natura, tra mente e atmosfera e tempo e distanza.

Camminare è un luccichio di sensazioni che vanno dal dolce all’amaro, dal caldo al freddo con sofferenza ed esaltazione.

 

E’ per questo che non perdo occasione per camminare, è per questo che ogni volta che intraprendo un cammino poi non lo dimentico.

 

A un anno e qualche spicciolo di tempo dal cammino di Santiago, qualche giorno fa parto per il santuario della Santissima Trinità, naturalmente a piedi.

 

Erano mesi che se ne parlava ed io, reduce dal cammino francese di 800 km non avevo timore di affrontare un percorso di 100 km scarsi, eppure l’incognita esiste sempre e si insinua malvagia nel cuore dell’uomo, figurarsi nel mio che non è coraggioso nemmeno un po’.

Avevo cominciato a considerare che il mio massimo durante il cammino erano stati 47 chilometri e che 55 tutti insieme forse sarebbero stati fatali. Ascoltavo gli amici preoccuparsi di fiato, resistenza, muscoli, testa, cuore, animo e cervello e pensavo tra me e me che non sono provvista di risorse eccezionali in nessun settore tra quelli sopraccitati.

 

Così ho temuto il peggio anche io.

 

Poi ho ricordato la sana incoscienza che mi aveva guidata in Spagna e  ho pensato solo ad andare.

 

Sveglia alle quattro del mattino con 3 ore di sonno scarse sulle spalle. Uno zainetto, una borraccia, ancora un po’ d’acqua e gambe pronte.

Qualcuno già aspettava sul luogo dell’appuntamento, qualcuno arrivava, gli altri si facevano aspettare e sempre insieme a noi quella domanda che si poneva Angela già da qualche giorno: “ma che senso ha?”

Domanda a cui, lo dico subito, nessuno di noi ha saputo dare una risposta.

 

Le prime ore  del mattino rendono piacevole qualsiasi occupazione e freschi, entusiasti e vigorosi siamo tutti arrivati a Isola per la colazione.

Il primo test era superato quindi.

 

Ripartire è un po’ morire per i muscoli, destinazione Sora dove ci aspettava pizza, acqua fresca e ombra.

Angela e Silvia aggiornavano facebook, io cercavo di capire come mi sentivo… così come facevano tutti credo.

 

Poi il caldo ha cominciato a salire sulla pelle.

Michele andava avanti con Vincenzo, noi subito dietro e poi insieme fino a Balsorano. Poco prima di arrivare nel posto fissato per mangiare abbiamo incontrato una fontana. Ne avevamo incontrate altre e molte altre ne avremmo incontrate poi, ma nessuna con un’acqua così fresca e dolce.

 

Il pranzo, buono e leggero aveva portato con sé anche il sonno e fatto affiorare un po’ di stanchezza, ma non c’era tempo per lamentarsi o per pensare, bisognava camminare contro il caldo, contro la lunghezza del percorso, contro i cattivi pensieri di ogni giorno.

 

Con Elisa, passo dopo passo, cercavamo cose belle a cui aggrapparci per andare avanti: qualche battuta, qualche ricordo, un po’ di speranza.

 

Poi all’improvviso un ghiacciolo alla menta… anzi due e le gambe hanno cominciato a carburare e ad andare come locomotive a vapore, sbuffando e scalpitando, ma senza fermarsi mai.

 

Angela, Silvia, Antonio e Rocco erano davanti a me, dopo poco li ho raggiunti e arrivare a Civitella con loro 4 è stato uno spasso. Si punzecchiavano e si spronavano affinché il cammino risultasse meno duro e si rideva tanto chiedendosi sempre e comunque “ma che senso ha?”

 

La pensione era lì, un letto quindi e una doccia soprattutto. Con un sincronismo perfetto anche Emanuele e Marco arrivavano con i nostri bagagli e così ho tolto le scarpe finalmente!

 

Iniziava la lenta conta delle vesciche, Roberto bucava, incideva, drenava e noi tutti lì a chiederci sempre la stessa cosa: “ma che senso ha?”

 

Arrivava il buio e quel letto da dividere con Elisa diventava sempre più grande e morbido poi nel cuore della notte dopo i fuochi d’artificio e gli sghignazzi degli assessori al piano di sotto ecco la telefonata del presidente del consiglio “Cala che brindiamo!” Io dormivo già e volevo solo continuare a riposare… l’indomani sarebbe stata una lunga giornata per noi che avremmo camminato.

 

La scalata al santuario è cominciata alle 5.35. Io e Federica abbiamo ingranato la quinta chiacchierando di università, del terremoto, di paesini senz’anima e di lupi lontani.

Più tardi si è avvicinato il gruppo di Mario, luigi, Francesco, Elisa e Jaqueline. Abbiamo camminato tanto e forte, salita dopo discesa, asfalto dopo sabbia e pietra dopo pietra.

Ci siamo fermati di tanto in tanto senza mai raffreddarci troppo, abbiamo bevuto litri d’acqua e il sole ci ha scottato la pelle. La montagna del bosco mi ha uccisa, su quelle foglie scivolavo troppo, e odiavo ogni ramo che mi si spezzava sotto i piedi.

 

Dal basso vedevo gli altri salire e speravo che non mi aspettassero. In pianura recuperavo energia ed entusiasmo, poi di nuovo la salita, il bosco, il cuore che cede pensando alla solitudine di certi luoghi che sembrano l’anima della gente quando si è tristi. La mia anima spesso somiglia ad un bosco.

 

Federica proponeva: “devi tagliare il traguardo”, Mario insisteva: “l’amministrazione comunale è qui” e io che pensavo solo ad arrivare perché non è mai detta l’ultima.

Ogni tanto sentivo un fastidio al mio solito ginocchio, poi speravo che i piedi non mi tradissero con una storta, per il resto tutto bene.

 

Questa ti giuro che è l’ultima dice Elisa affrontando una salita ripidissima.

 

Era l’ultima, si.

 

Mi siedo sul muretto, bevo 10 bicchieri d’acqua, mangio biscotti, faccio un po’ di silenzio.

 

Riposo

 

Riposo anche mentre Amatuccio grida che “ci vogliono i cavalli da corsa!!!”

 

La visita al santuario con le gambe e la faccia ancora pieni di polvere, poi l’acqua fresca delle fontane passata e ripassata sul viso per lavare via la stanchezza e tutte le cose che si pensano appena ci si ferma un attimo nella vita.

 

La messa, la lenta risalita, l’incontro con gli altri appena arrivati e gli abbracci.

 

Poi un prato, un albero grande con l’ombra ancora più grande e tante, davvero tante cose da mangiare.

Gabriele mi guarda stupito e felice… quanta roba!

 

Avrei voluto dormire ma bisognava ancora smaltire un po’ di altitudine e adrenalina.

Il sonno è arrivato in macchina, poco prima di arrivare a casa e chiudere la porta su questo splendido cammino.

Scrivo oggi chiedendomi, ancora, ma che senso ha?

Forse nessuno, ma vale la pena farlo.