Questo primo mese del 2009 mi ha portato un po’ di malanni fisici e di sfortuna diffusa a più livelli, ma anche un sacco di tempo per leggere e quindi tante pagine divorate o bevute o respirate piano nella luce fioca della lampada da notte o sotto i neon del vagone del treno.
Uno su tutti, quello che più di tutti mi ha presa e lasciata lì senza una risposta precisa è “Il mio nome è rosso” dello scrittore turco Orhan Pamuk.
E’ la storia di un duplice assassinio consumatosi all’interno della ristretta cerchia dei minuaturisti del sultano nella turchia del 1591.
E’ una storia di passioni e morte, una storia di conflitti interiori di persone e culture che cambiano, si contaminano e si combattono.
Per essere compresa, questa storia deve essere immaginata come una serie di miniature o dipinti o ritratti. Disegni meticolosi e perfetti che raccontano l’evolversi dei fatti attraverso il loro sguardo.
Rosso è il colore per eccellenza, è il colore che attraversa la nascita, la morte, il dolore e l’amore.
Rosso è il colore della lotta tra tradizione e innovazione, rosso è il colore del sangue delle sue vittime.
Rosso è il colore della rosa
Il nome della Rosa.
Dopo Umberto Eco, anche Pamuk si misura con il dramma ancestrale che si consuma ogni volta che il mondo gira su se stesso in maniera più veloce.
Il gusto è amaro, nessuno vince, non vince nemmeno l’amore, non vince il buono, non vince il cattivo. Vince solo il mondo beffardo che stuzzica e mette alla prova ogni volta con la stessa crudele genialità.
Mi ha lasciato lì senza una risposta, dicevo. Tra l’altro è stato difficile anche farsi delle domande sensate.
Mentre leggevo mi chiedevo se il libro mi piacesse oppure no, se fosse necessario documentarsi, se io fossi abbastanza sensibile, intelligente e perspicace per capire.
Capire… che noia.